Madri che adottano: un cammino attraverso la letteratura psicoanalitica

Non esiste una tendenza assoluta verso il miglioramento,
se non in circostanze favorevoli!

C. Darwin

Premessa

Vi sono numerosi scritti che esplorano la molteplicità e complessità delle componenti implicate nell’adozione di un figlio (affettive, umane, sociali, etiche, legali, di politica internazionale e giuridiche) tanto che diventa difficile assumere un atteggiamento rigoroso che si adatti alle diverse circostanze che la casistica sottopone. Diviene complesso, inoltre, occuparsi di un solo attore, nello specifico della madre, senza provare contemporaneamente un’irresistibile attrazione a pensare alla storia e ai vissuti del bambino, o a vedere squalificata la funzione paterna, quale apporto mancante nella relazione genitoriale. Ma forse l’argomentazione si complica e l’imbarazzo, nel descriverla, aumenta se, come in questo caso, si tenta di esplorare e di indagare il desiderio di maternità, desiderio della donna che porta con sé la matrice originaria delle esperienze affettive e la traccia profonda di un funzionamento relazionale che riemerge nell’accoglienza del figlio. Assumere una posizione incompleta, unicamente sulla donna-madre, escludendo il resto, diviene una posizione scomoda. Lo sbilanciamento verso la ricerca di funzione, ruolo e cammino emozionale materno apre, inoltre, un dialogo interiore che pone interrogativi, anche personali, circa l’origine del percorso esistenziale, nell’acquisire un’identità femminile adulta che conduce al desiderio di avere un figlio.
Nel tentativo di rivolgere uno sguardo all’intimo delle esperienze sul “materno”, in un dibattito che fatica a riconoscere l’etimo clinico, teorico, professionale e/o personale, approfitterò delle sollecitazioni teoriche che contribuiscono alla descrizione di ciò che materno in adozione si presenta, di ciò che può essere, di ciò che può diventare o trasformarsi in merito a eventi, stati d’animo o vivificazioni emozionali.

Ammaternamento

Nella metà del secolo scorso esisteva una matrice di letteratura francese, a cui apparteneva anche Nicole Quemada, che nel 1963 sosteneva il valore dell’ammaternamento, quale funzione esplicitata dalla madre o da colei facente funzione di madre, capace di infondere amore nel bambino. L’autrice scrive a proposito dell’ammaternamento in adozione: “Si ama, questo piccolo sconosciuto, così com’è, d’un amore incondizionato. Ci si lega a lui per sempre, comunque divenga e qualunque cosa accada. Il bambino è accolto ed educato per la sua felicità, per il suo avvenire”. Il lavoro da cui è tratta la citazione, non si limita a evidenziare aspetti nobili di una funzione materna indistinguibilmente forte nei legami di sangue così come in altre forme di filiazione, ma assolve le madri dal dubbio di potersi vivere appartenenti a categorie diverse e descrive e riconosce il profondo danno, con effetti permanenti, provocato al bambino dalle conseguenze di un non-ammaternamento. In determinate circostanze, ricorda l’autrice, la deprivazione affettiva, seppur mediocre nella forma, può verificarsi e comportare significative sofferenze per il bambino. Nel testo distingue il non-ammaternamento totale dal non-ammaternamento di intensità mediocre. Quemada sembra quasi voler mettere in guardia sui possibili traumi e/o profonde privazioni infantili che comportano significative sofferenze per il bambino e che prescindono dalla tipologia di legame di filiazione fra madre e figlio.
La letteratura sull’infant-research e gli studi neuro-scientifici attuali descrivono con chiarezza gli effetti duraturi per il bambino di un deficitario processo di sintonizzazione affettiva con la madre, che appunto, se carente, provocherebbe esiti sfavorevoli sul sistema nervoso centrale per il decadimento di circuiti neuronali fondamentali. L’esperienza dell’abbandono o dell’allontanamento materno, se aggiunta a un funzionamento centrale ridotto e all’instaurarsi di robuste difese psichiche, certamente complica il cammino evolutivo. Qualsiasi madre, naturale o non, che impatta con questo tipo di realtà, del bambino, dovrà fare i conti con i limiti di strutture di funzionamento indebolite e protezioni psichiche particolarmente forti. Quemada, dunque, avvisa sulla duplice problematica che si incontra in adozione: da un lato il trauma da deprivazione nel bambino e dall’altro il vissuto materno astenico, impossibilitato a supportare il coinvolgimento che l’arrivo del bambino richiede, quasi come un limite o una protezione difensiva, anche solo temporanea, del genitore e, nel nostro caso, della madre, nel lasciarsi catturare e a sua volta catturare quel potenziale essenziale per la relazione col bambino.
Le cause emozionali, sociali, esperienziali, sanitarie che possono contribuire all’indisposizione materna sono molteplici e articolate. Ma ciò di cui la donna potrebbe accorgersi nel corso della propria vita è il costo pagato per la rinuncia sia di un’esperienza sia di un investimento affettivo che abbia portato ad inibire la pulsione creativa originaria. Nell’arco del tempo, l’eventuale riaffiorare del desiderio verso un tipo di esperienza affine di cui, però, ne risulti attenuato il richiamo emotivo e incompleta la maturazione psichica, potrebbe alterarne l’espressione, il riconoscimento interno e la manifestazione esterna. Per tale ragione acquista importanza il cambiamento interno nel vissuto della donna, affinché l’arrivo del bambino sia accolto come apice di eventi trasformativi e modificatori indipendenti dalla nascita del neonato o dall’ottenimento di un’idoneità. Nell’arco del processo conoscitivo interno, la donna potrà raggiungere l’identificazione con varie parti di sé, al fine di accogliere la pluralità delle esperienze, dalle più precoci e primitive, fino alle modificazioni che intervengono in età adulta (dall’infantile al materno). In tal modo non verranno disconosciuti il potenziale creativo e procreativo originario e le evoluzioni successive.
Nel tentativo di spostare il focus da ciò che è qualità materna presunta a ciò che ogni donna può sensibilmente esprimere, come propria parte materna, cercherò di esplorare i processi di sviluppo, i meccanismi di funzionamento e i protagonisti delle rappresentazioni genitoriali internalizzate implicati nel processo maturativo femminile.

Maturità psichica e benessere psichico

Scopo della descrizione che segue è di esporre delle linee di continuità evolutiva che consentano di percorrere il processo di crescita sano dell’individuo e di discernere lo sviluppo nella donna attraverso le vicende del
“romanzo edipico femminile” (Odgen).
L’acquisizione di una maturità adulta sana si fonda sul legame primitivo madre-bambino e sul modo in cui, da adulti, il prototipo di quel legame (per la funzione che riveste) diviene parte internalizzata dell’individuo stesso.
Di maturità psichica parlano vari autori. Quinodoz, apportando il pensiero di Winnicott, permette di seguire il passaggio necessario affinché maturi la capacità di esistere in assenza dell’altro. Ciò accade a seguito di sane esperienze di contatto esercitate dalla madre sul neonato quando l’immaturità dell’Io necessita di un sostegno e, più tardi nello sviluppo, quando il bambino sarà in grado di introiettare la madre che dà sostegno all’Io. Stern lo descrive come il passaggio verso un legame con un oggetto fisicamente assente, riconoscendo la necessità per l’individuo adulto di aver maturato la capacità di accedere nella realtà a un “compagno evocato”. Filogeneticamente, Stern ritiene che si sia sviluppata una “capacità di impregnarsi della presenza di una persona che è fisicamente assente, di un compagno quasi esclusivamente evocato”. La possibilità per il neonato di sperimentare in modo durevole una regolazione interna modulata dalle cure materne ha un effetto profondo sulla stabilizzazione emozionale e sulla prevenzione contro la frammentazione del Sé. L’individuo ha bisogno di fare assegnamento sulla madre (altro da sé) per poter sviluppare solide funzioni autonome. Sembra però che non basti la sintonia fra madre e bambino per accompagnare e trasformare l’immaturità infantile e per consegnare contemporaneamente un modello relazionale di supporto allo sviluppo. Deve poter avvenire, in aggiunta, un affinamento crescente nel bambino nel tener conto dell’altro, in merito al riconoscimento delle qualità altrui e dell’assegnazione interna di valori e di scopi specifici per quella relazione. Bick parla di introiezione delle funzioni di contenimento in un senso spaziale. Nella mente del bambino si crea lo spazio in cui può stabilizzarsi l’identificazione con i genitori solleciti e affidabili e in cui si tengono le prime esperienze oggettuali. Il bambino riduce la relazione con un oggetto interno pre-edipico inconsapevole (la madre ambiente-contenitore in termini winnicottiani) a favore di un oggetto esterno edipico. Il primo oggetto d’investimento affettivo partecipa all’onnipotenza del bambino, il secondo si compie per investimento su oggetti fuori dalla portata del controllo dell’onnipotenza infantile. Un movimento verso madre e padre edipici rappresenta un passo avanti nei rapporti oggettuali esterni. Il bambino vi accede attraverso esperienze transazionali. Tali esperienze mobilitano un passaggio cognitivo-emotivo fondamentale per rappresentare, evocare e simbolizzare le esperienze interne in assenza dell’oggetto concreto. Quando tale processo funziona il bambino, sia maschio che femmina, potrà progressivamente accedere, per mezzo del rapporto diadico con la madre, al legame triadico come rappresentazione del padre interno nella madre, ampliando il proprio panorama affettivo ed esperienziale.

Maturità psichica al femminile

Non risulta indispensabile, in questo caso, accertare se la differenza fra i sessi sia dovuta a una deludente relazione con una madre piena di contenuti invidiabili e pertanto disprezzata, nella bambina, contro fantasmi punitivi per desideri omicidi verso il padre, nel maschietto, o piuttosto a un progressivo sviluppo differenziato nelle due identità di genere, quanto riconoscere che la prospettiva pulsionale e i sentimenti ad essa/esso correlati pongono nuovi obiettivi, interessi e desideri nei due sessi.
Secondo Odgen, questa disponibilità nuova consentirebbe alla bambina di superare quel piccolo quantum di delusione verso il tradimento attribuito alla madre edipica. Verso la madre edipica la bambina dirige la propria rabbia per la realizzazione dell’esistenza di un rapporto di intimità fra i genitori edipici in cui lei non è inclusa. Ciò che Odgen propone con sensibilità consente di comprendere come l’investimento nuovo che la bambina compie non avviene per mezzo di una sostituzione di oggetti esterni. Non si tratta di sostituire la madre traditrice con il padre compensatore della delusione, ma di ampliare l’investimento interno in cui il padre è scelto come oggetto d’amore e alla madre viene assegnato anche uno statuto di rivale dalle tonalità affettive ambivalenti. La bambina non deve necessariamente rifiutare la madre per poter amare il padre, non deve rifiutare un oggetto interno in cambio di un oggetto esterno, sebbene Odgen chiarisca che ciò accade nel caso in cui la madre acconsenta ad essere usata come tramite verso un rapporto
con l’altro.
La bambina che abbia attraversato la propria infanzia e crescita successiva per mezzo di uno sguardo materno mediato attraverso oggetti e fenomeni transizionali insiti nel rapporto edipico sarà una bambina, una donna e una madre che ha introiettato una sufficientemente sana funzione materna, con buone prerogative affettive. Non sarà quindi una donna che abbia negato, sedotto o subito il fascino seduttore della madre pur di rinunciare al conflitto con essa, né che intenda occultare la propria attrazione paterna, arrestando il fluire di fantasmi incestuosi. Ciò significherebbe la rinuncia al superamento dell’investimento onnipotente a vantaggio di quello oggettuale, prerogativa indispensabile per potere essere in futuro depositaria di identificazioni primarie ed esserne impregnata (in risonanza col pensiero di Stern) per prenderne una distanza autonoma.

Passando dalla teoria all’osservazione (e viceversa)

Non di rado accade, nella pratica clinica, di ricevere dalle madri adottive l’investimento a garantire l’unione fra loro stesse e il bambino. Spesso non viene formalizzata una presa in carico finalizzata all’evolvere del bambino verso un benessere psichico ancora non raggiunto, così come talvolta non appare possibile approfondire le cause della sofferenza che veicola e squalifica gli sforzi affettivi intrafamiliari. Sembra precluso l’accesso all’esplorazione. Questo vincolo potrebbe inficiare il lavoro analitico, se non si riconoscesse nella pressione ad eseguire la richiesta, oltre a un fisiologico bisogno affettivo e protettivo della relazione madre-bambino, anche il monito a non distogliere lo sguardo dagli aspetti infantili materni non sufficientemente sostenuti da una solida identificazione adulta. Rischia così di avviarsi un contratto di lavoro terapeutico viziato dal presupposto che non debbano esserci interferenze affettive. In fasi successive le pressioni e le esigenze materne possono mutare con richieste meno intransigenti. Tutto ciò potrà avvenire in un secondo momento.
La presenza di una vacillante identificazione adulta materna, può avere diverse origini:

  • una forte identificazione con gli aspetti infantili e/o carenziati del figlio;
  • una mancanza infantile materna;
  • l’effetto di una collusione inconscia a cui non sembra possibile sottrarsi, tanto meno il terapeuta.

Sebbene nella madre la predisposizione a identificarsi col figlio costituisca un elemento costruttivo fondamentale della relazione col bambino, il permanere in tale stato potrebbe essere causa di una naturale propensione materna a travisare aspetti fragili di sé attribuendoli all’altro (al bambino). L’intransigenza onnipotente infantile potrebbe così vestire i panni di una coppia madre-bambino poco permeabile al cambiamento e all’accettazione di altro da sé.
Al terapeuta viene chiesto di esercitare una funzione di contenimento della dualità e di protezione del suo mantenimento nel tempo; contemporaneamente vengono forniti i limiti di quanto di estraneo può essere ammesso nell’accettazione dell’intervento tecnico. La creazione di un varco, uno spazio terzo in cui possano prolificare fenomeni di transizione tipici del lavoro terapeutico (intesi come lunghi periodi in cui qualcosa viene ad essere, come dice Layado) autonomi dalla relazione con la madre, costituisce una minaccia. Nel lavoro con famiglie adottive si può avvertire il controllo verso aspetti potenzialmente minacciosi, come se venisse trasmesso il rischio di una precarietà, di una ineludibile perdita di contatto, contro una tensione continua di ricerca di immutabilità.
A tale proposito si rendono particolarmente preziose le parole di Dina Vallino quando definisce la catastrofe interna connessa al cambiamento, come il rischio “di perdere la rassicurante unità di noi stessi e di entrare nel regno […] dell’angoscia della perdita di significato”. Il rischio di perdere il significato della qualità affettiva espressa dal bambino provocherebbe alla madre adottiva una forte sofferenza, in quanto è troppo recente una semantica narrativa comune, un codice costruito insieme al bambino a cui riferirsi, che permetta di collegare il passato al presente riconoscendone una continuità. Nell’osservazione sistematica di famiglie con bambini adottati che abbiano da poco costituito il proprio nucleo, è ricorrente nelle madri e nei padri scorgere una certa immutabilità nelle narrazioni della descrizione del figlio, anche contro la presenza di un’ampia gamma di comportamenti osservabili, talvolta opposti. La presenza contemporanea di differenti modalità relazionali e adattative può rendere difficile, all’osservatore, la comprensione e la descrizione di quanto accade al bambino, così come può confondere circa l’univocità di un atteggiamento prevalente. I genitori hanno selezionato alcuni aspetti del bambino che forse difficilmente mettono a confronto con altri, forse meno gradevoli, oppure troppo complessi, ma altrettanto presenti. La compresenza di molteplici comportamenti, può confondere il bambino, renderlo poco riconoscibile agli occhi del genitore. Si può pensare che il genitore tenti di proteggere il figlio e se stesso da un eccesso di atteggiamenti non sempre comprensibili, rischiando di sottrarre modalità espressive importanti per il bambino, senza le quali il bambino potrebbe trovarsi ad aderire a un modello genitoriale ideale e non necessariamente proprio. Si può quindi ritenere che il residuo di una relazione primitiva intima e idealizzata, fra madre e bambino, all’interno della madre, potrebbe viziare il rapporto spontaneo e genuino col figlio reale. Se ciò accade, nelle forme più eclatanti, si avvertirebbe la coesistenza di istanze e qualità relazionali, sia duali che triadiche, dettate da attribuzioni moralistiche o superegoiche, che intimano a conformarsi con un modello stereotipico, limitando un accesso diretto, sensibile e affettivo (seppur imperfetto e confuso).
Uno dei fenomeni più comuni nel lavoro con le madri di bambini adottati è la facilità di venire destituiti da un compito che poi viene assegnato a qualcun altro più competente. Si è catturati dentro la spira della ricerca della perfezione che appaghi come nell’infatuazione del colpo di fulmine. Il miraggio passionale ravviva la speranza di un esaudente e compenetrante esperienza di contatto, per la quale non sono ammesse interferenze modificatrici. Lo spostamento da una figura a un’altra ripete, forse, il miraggio di un incontro fortunato con la madre non internalizzata e ancora cercata?
La letteratura infantile è ricca di narrazioni in cui la morte della madre buona condanna il bambino a sostenere il conflitto fra la solitudine e la sostituzione con una madre-matrigna. L’assenza di una funzione materna interna sana sembra contaminare la disponibilità del bambino ad accogliere l’altro, perpetuando il vuoto dell’assenza. Solo il miraggio dell’innamoramento risolve e assolve dal gravoso dilemma. Nelle favole, tutto può accadere. Esse non hanno solo il compito di affrontare conflitti infantili ma anche di tradurre la spietatezza degli impulsi vendicativi infantili in rappresentazioni caricaturali estranee al bambino.
Esiste però un certo tipo di esperienze precoci, di epoca pre-edipica, la cui intensità massima è difficilmente conciliabile in una trasposizione narrativa. In esse rientrano le deprivazioni affettive, le esperienze traumatiche infantili o i meccanismi precoci responsabili di un distacco dall’oggetto materno, causa di un allontanamento affettivo e relazionale. Freud, a proposito della sessualità femminile, descrive l’amore per la madre dell’età infantile pre-edipica come smisurato, che pretende l’esclusività e che non si accontenta di una rispondenza parziale. L’amore infantile avrebbe inoltre un altro carattere. Sempre secondo Freud, “è incapace di un completo soddisfacimento e, soprattutto per questo, è condannato a risolversi in disillusione e a dar luogo a un atteggiamento ostile”. Freud chiarisce come il mancato appagamento, nella vita più tarda della donna, potrebbe favorire la continuazione indisturbata dell’investimento libidico, tendente a reiterare l’abbandono della posizione insoddisfacente a vantaggio di una nuova.
Alla luce di quanto detto, si può comprendere come risulterebbe particolarmente difficile un incontro fra una madre e un figlio che abbiano familiarità con l’attacco infantile alla funzione materna (e non possano evolvere da tale stadio). Nella madre diventerebbe infatti difficile non cadere nell’accusa di essere la causa dell’ostilità del figlio in quanto incapace di soddisfarlo o difendersi da tale dolore proiettandolo sulla madre naturale. Il figlio, d’altra parte, può non sentirsi sostenuto nei normali attacchi ostili alla madre, riproponendo il rischio che la fragilità materna possa renderlo solo (essere abbandonato) oppure diventare lui stesso portavoce dell’insoddisfazione, minacciando di ricercare altrove la propria gratificazione affettiva.
Ma forse si attualizza così, all’interno del fraintendimento fra esperienze precoci materne e vissuti precoci infantili del bambino, anche il timore di fondo per la madre adottiva di perdere la conferma interna del riconoscimento della propria funzione? Quali altre emozioni potrebbero rischiare di essere occultate difensivamente a causa delle sofferenze sperimentate dal bambino e ampliate nella relazione madre-bambino?

Il bambino nato

Il bambino nato al termine di una gestazione, più o meno fortunata, è un bambino donato all’incommensurabile incertezza di vivere. Di questo le madri dei neonati sono consapevoli e ansiosamente partecipi per ogni asincrono respiro del figlio, per l’assunzione di una mutevole colorazione del volto, per l’eventuale rigurgito che non consente una congrua alimentazione, per ogni alterazione imprevista, per i vissuti di rifiuto o di fastidio vicendevoli che madre e neonato condividono fin dai primi scambi extrauterini.
Mi soffermo su questo punto nel tentativo di integrare aspetti osservabili e/o riferiti dalle madri, con quanto concerne la teoria sulla non-integrazione dell’Io primitivo infantile, introdotta da Winnicott.
L’assenza di una coesione propria dell’Io primitivo infantile e la condizione del neonato dall’essere attraversato da stadi di profonda angoscia, rendono lo stato psichico dell’infante oscillante fra momenti di appagamento, e quindi di integrazione del Sé, e momenti di rischio di disintegrazione. A tale proposito M. Klein scrive: “Odio e sentimenti aggressivi si destano, ed egli comincia ad essere dominato dagli impulsi a distruggere proprio la persona che è l’oggetto di tutti i suoi desideri e che nella sua mente è collegato a qualsiasi cosa egli abbia sperimentato. Nel lattante, odio e sentimenti aggressivi danno origine inoltre a moltissimi stadi dolorosi come soffocamento, mancanza di respiro […] l’infelicità e la paura aumentano ulteriormente”. La contemporanea esistenza di esperienze provenienti da eventi esterni e interni al neonato possono contribuire al benessere del bambino, ma possono anche dar vita a fantasie violente e profonde frustrazioni. C’è il rischio che sotto la forma di fantasie persecutorie tornino a incombere sul bambino i drammi esterni e i traumi interni. Diviene un rumore di fondo nello sviluppo umano, ma si rende particolarmente evidente nei bambini adottati.

Esperienze precoci nelle terapie dei bambini adottati

Nelle terapie dei bambini adottati ci si imbatte, prima o poi, nel vissuto dell’esperienza fetale, che si presenta come animazione di caratteristiche, parzialmente verbalizzate, fortemente sensoriali, trasformate in composizioni cruente, sporche, che condensano con toni grotteschi e impressionanti un concentrato di emozioni, contrapposte a un facciata sterile e asettica. Capita di arrivare a dare voce e rappresentazione a nascite travagliate ed emorragiche e di sentire, come scrive D. Petrelli, che “l’atto stesso della nascita sembra portare inscritto in sé, in modo apparentemente inevitabile, un desiderio di morte, proprio da parte dei genitori nei confronti di quel bambino non voluto”.
Il confronto con questa qualità comunicativa, che irrompe con atti, spesso aggressivi, e molto poco verbalizzati, porta a confrontarsi con una disperazione profonda. Il bambino, soprattutto se in età prepubere o adolescenziale travolge persistentemente con la sua iperattività che, lentamente,nella terapia può essere letta (e poi, forse, restituita) come una strenua difesa da contenuti dolorosi inavvicinabili, risalenti all’identificazione con un sé morto (D. Petrelli).
Accogliere la fragilità di un bambino che abbia vissuto l’abbandono può condurre a esperienze di questa portata e profondità. Alcuni bambini lo comunicano, altri reiterano stati d’animo turbolenti che non riescono ad essere contenuti nelle briglie delle difese psichiche, assumendo i connotati di condanna verso il genitore rifiutante. D’altra parte non è poi così difficile con questi bambini vestire i panni proprio del genitore rifiutante. Sono bambini che spesso hanno dovuto adattarsi a condizioni estreme ben oltre il limite della sopravvivenza; ogni privazione può aver costituito un rifiuto vitale e chiunque glielo ricordi, con un atteggiamento anche solo contenitivo o normativo, incarna il volto del carnefice. Inoltre, così come introdotto in precedenza, non si può sottovalutare la potenza dei sentimenti di odio e di aggressività precocissimi e come essi connotino i vissuti persecutori e paranoidei del bambino, rischiando infine di mistificare e di convertire la pesantezza di cui il bambino porta il carico, in quanto vittima di abbandono, preferendo una visione fantasmatica, ma potente, di aggressore violento e omicida.

Conclusioni

L’importante presupposto che l’adozione salvaguarda, afferma Anna Badiali, riguarda il favorire l’incontro fra due storie: quella del bambino con quella dei genitori. Inoltre, aggiunge A. Badiali, l’adozione potrebbe realmente facilitare il lento languire di due sofferenze luttuose, quali l’abbandono e l’impossibilità a soddisfare il desiderio di maternità e paternità per via fisiologica. L’adozione è un’occasione preziosa e unica per le due parti, sempre che genitori e bambino non si trovino investiti ad assolvere responsabilità a loro non competenti. Non potrà il bambino adottato cancellare il dolore per l’assenza del bambino desiderato e riempirne il vuoto con la propria esistenza, né il genitore potrà cancellare la sofferenza dell’abbandono, di cui resteranno vivi amarezza, odio e sfiducia, se non a seguito di un tempo sufficientemente lungo.
Diversamente, la coppia, e la madre in particolare, potrà lasciar progredire il proprio vissuto materno, rintracciandone l’esistenza nella propria storia infantile e l’evolversi nel corso della vita. Potrà reimpadronirsi della passionalità, così come dello sprezzante potere dell’odio e dell’invidia, che progetta squalifiche a vantaggio di un vittorioso senso di potere e, riconoscendone un legittimo aspetto umano, ne potrà parlare col suo bambino, fornendo così le basi su cui le emozioni possano diventare occasione di una comprensibile condivisione.

Bibliografia

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A cura di Chiara Ciampi e Marzia Guarnieri, Codice Materno, 2011 Hygeia Press, Cagliari, capitolo XIV, Valentina Loliva,  “Madri che adottano: un cammino attraverso la letteratura psicoanalitica”.